Ipocrisia

Si chiedeva se entrare e aspettarla al bancone del bar o continuare a passeggiare in strada. Di certo, lì fuori si sarebbe intirizzito. Era solito presentarsi agli appuntamenti con largo anticipo. Lei, anche la volta scorsa, la loro prima volta, aveva tardato di almeno mezz’ora. Oggi, lui, nei primi venti minuti d’attesa, stava passando al vaglio il proprio aspetto, sforzandosi di ripercorrere mnemonicamente il rituale di preparazione, svolto poco prima davanti allo specchio del bagno. Nonostante fosse metodico nell’occuparsi della propria persona, saltò i canonici tre minuti di igiene orale, ma ancora non se ne era ricordato. Con la tranquillità di un ignorante, si sincerò, nel riflesso di una vetrina, che la capigliatura fosse intatta come l’aveva fissata.  Poi abbassò il capo e con una mano scostò e riavvicino rapidamente i vestiti al petto, annusandone l’aria calda che fuoriusciva dal bavero; profumava di Argan e ne fu vanitosamente soddisfatto. Fu quindi assalito dall’ansia dell’attesa che, nonostante si sfiorassero i Celsius negativi, lo spinse a verificare se non avesse già macchiato la camicia sotto alle ascelle: era tutto a posto. Si rilassò e concentrò i suoi pensieri sul viso di lei. Ma come l’avrebbe salutata, al suo arrivo? Forse con un bacio sulla guancia? E le eventuali battute di spirito in risposta alle sue scuse per il ritardo? Si chiese poi di cosa avrebbero potuto parlare. Dei rispettivi lavori? La salute? Meglio di no. Ma allora, cosa? Era così imbarazzante non saper di che cosa parlare. Si agitò. I suoi pensieri dovevano cambiare direzione. Trovato! Avrebbe vissuto quell’appuntamento come se ve ne fossero stati molti altri insieme, in precedenza. Convincersi di essere già entrati in una certa intimità avrebbe smorzato la paura dell’ignoto insinuatasi inesorabilmente pensando a lei ed al suo mondo. Ecco fatto, con quella convinzione aveva ripreso in mano le redini della serata a venire e, forte di quello slancio immaginario, spostò prepotentemente l’attenzione su di lei.

Ma passata la mezz’ora di attesa incominciò veramente a spazientirsi. Doveva ammetterlo, ben presto, su quel viso diafano, quella fastidiosa costante del ritardo sarebbe apparsa come un neo, verso il quale, al termine di una breve carezza, strofinandolo con il pollice, non avrebbe risparmiato un commento sarcastico.  Ma due respiri profondi gli furono sufficienti a rimproverarsi per quell’idea del neo. Che crudele, sarebbe come farle notare amorevolmente un residuo verdastro sui denti, facilmente risolvibile con l’utilizzo di uno specchietto per il rossetto, se solo lei fosse più attenta. Fu allora che si ricordò di non aver lavato i suoi, di denti, e solo così, benché l’evento fosse di gran lunga di minor valenza, si vergognò all’istante per quel pensiero che, nei panni della vittima, permaloso com’era, lo avrebbe umiliato per tutta la serata. Così il freddo non gli impedì di arrossire e poco importava se era solo, nella penombra, perché la severità del proprio atteggiamento critico gli si era già rivolta contro. Con un’energica strofinata dell’indice, come avrebbe fatto con lo spazzolino, i suoi denti passarono in secondo piano, seguiti da quel fantomatico neo sul viso di lei. Gli rimase solo l’amaro in bocca, come un segno di auto-punizione, il gusto sadico del vittimismo che giustifica una cattiveria per carattere e non per volontà.

Probabilmente, l’atteggiamento taciturno e punito o punitivo di lui graverà sulla spontaneità di lei per tutta la serata e forse gli sembrerà addirittura un bene. D’altro canto, riesce ancora a sentire le risate nervose di quella ragazza al loro primo appuntamento; lo misero a disagio al punto di spingerlo ad accennare compitamente a dei gesti di rimprovero, come se lei, vedendoli, si fosse trattenuta dal prolungare quelle risa esagerate. Oddio, in realtà gli era piaciuta quella sensazione di libertà emanata dalle sue risate e, in altre circostanze, quando fossero stati soli davanti alla luna e lui avesse voluto accattivarsi la sua simpatia con qualche battuta di spirito, ecco, forse allora quelle risate avrebbero facilmente trovato la sua incondizionata approvazione. Ma comunque sia non sopportava l’idea che qualcun altro dei presenti potesse trovarli sconvenienti. Il pensiero che altri giudicassero negativamente quella spontaneità lo rendeva lui stesso giudice che, essendo in rapporto diretto con l’imputata, si ergeva ad unico detentore del diritto di giudicarla. Ma avrebbe anche voluto proteggerla. Insomma, in entrambi i casi giocava d’anticipo su un presunto diritto di proprietà. Lei, dal canto suo, non sapeva ancora quanto lui potesse essere meschino. Fu lui stesso a giudicarsi tale, e lo fece sapendo che così sarebbero stati in due ad alleggerire il peso di quell’aggettivo. Al primo appuntamento, quando lei si tratteneva a lungo su discorsi apparentemente di poca rilevanza, lui si perdeva ogni sfumatura della sua voce, sviando l’attenzione nella lotta contro quel fantomatico giudice che in lui sentenziava senza tregua e gli forniva le attenuanti che lo avrebbero assolto da quegli stessi pensieri nei confronti di lei. E quando si sentiva vinto, seguiva la sua voce per tornare al presente. All’improvviso, dal bavero il freddo gli irrigidì il petto. Probabilmente credeva che neanche quel giorno sarebbe riuscito a cambiare di una virgola il suo atteggiamento, così come temeva che non avrebbe prestato attenzione ad una sola virgola del discorso di lei. Ma per ora la stava ancora aspettando, passeggiando lungo la via del ristorante e forse non era poi così intirizzito.

Lei sapeva di essere in ritardo ma cercava di non farselo pesare troppo. Non posso pensare che recriminerà, si diceva mentre slacciava l’accappatoio. Se lo tolse lentamente e lo appese allo scalda salviette, da dove scivolò e cadde a terra. Indossò le mutandine bianche: avevano una leggera e discreta lavorazione di pizzo sul pube e all’orlo sui fianchi. Allacciò il reggiseno sul davanti e lo fece scorrere e ruotare fino a coprire i seni.  Poi si sedette sul letto, cercò con la mano i collant dietro di sé e se li infilò lentamente per non smagliarli. Non aveva unghie lunghe e la pelle delle sue dita, nonostante fosse inverno, era liscia e morbida. Il vestito che pensava di indossare avrebbe lasciato nuda una piccola parte della schiena, sotto alle spalle, e si rese conto che il reggiseno sarebbe rimasto in vista. Se lo tolse e pensò di farne a meno. Il vestito invernale, così spesso, non avrebbe di certo mostrato quel fastidioso e imbarazzante rigonfiamento occasionale all’altezza dei capezzoli, si disse. Forse è meglio se cambio vestito. Ma l’idea di doverlo cercare la convinse a vestire quello già pronto. Spazzolò rapidamente i capelli e spruzzò del profumo sul collo, prima a destra e poi a sinistra, quindi sui polsi, che strofinò tra di loro. Perché non vuoi che ti accompagni, chiese una voce maschile alle sue spalle. Non era il caso.

Mentre camminava pensava a come avesse fatto ad arrivare al secondo appuntamento con lui. Sì, è un ragazzo a modo, simpatico, sincero, pensava, ma… Ma cosa, si chiedeva con ansia. Ma… forse il problema sono io… E immancabilmente, quando giungeva a questa conclusione, serrava i denti e il suo passo si faceva più deciso, fino a che sentiva un leggero fastidio ai polpacci. Riconobbe quel fastidio e rallentò. Dannati tacchi! Certo le scarpe da ginnastica non si sarebbero intonate al nero del vestito, nonostante il cappotto la coprisse completamente dal collo ai piedi e nessuno avrebbe notato lo strano abbinamento. Al ristorante si sarebbe seduta mentre gli porgeva il soprabito e avrebbe tenuto i piedi sotto al tavolo per tutta la serata e quando fossero usciti, il cappotto l’avrebbe coperta nuovamente. Chissà come siamo arrivati a parlare delle scarpe da ginnastica. E com’è che ha potuto consigliarmi di usarle sul vestito da sera? Secondo me non ha affatto buon gusto… o non ne capisce nulla di… Ma smettila, piuttosto stai attenta a dove metti i piedi, si diceva.

Arrivò nei pressi del locale dove avevano appuntamento e lui la vide non appena svoltò l’angolo. Le andò incontro e la prese subito a braccetto. Lei socchiuse gli occhi e gli porse le labbra ma lui sembrava più preoccupato a condurla verso l’ingresso del ristorante. Si fermarono sulla porta e le diede un bacio improvvisato sulla guancia.

Non sapeva se lei avesse gradito che la baciasse sulle labbra. Non aveva notato che poco prima gliele aveva offerte in un gesto incerto ma coraggioso. Tuttavia si accorse di non averla salutata come avrebbe dovuto. Sarebbero entrati da lì a pochi secondi. Che senso ha baciarla dentro al ristorante, si chiese. Così, non trovando altra soluzione, prima di entrare la baciò rapidamente sulla guancia. Lei non ebbe il tempo di girarsi per ricambiare il gesto, quindi poté solo accennare ad un sorriso di soddisfazione, che a lui sfuggì.

Al tavolo era nervosa. Le mani appoggiate sulle gambe; una scorreva ansiosamente su e giù per la coscia mentre l’altra stringeva un lembo del vestito, spingendolo di tanto in tanto verso il basso, come se dovesse coprire la nudità che un disagio aveva scoperto. Forse sarà gelata, pensò lui, e quando le prese le mani e gliele portò sul tavolo per poterle stringere, lei si rilassò.

Mi chiede se ho freddo… Si sentì improvvisamente sola, ma la profondità di quel sentimento era troppo vasta per permettersi di perdersi in essa quindi, quando lui le strinse le mani, a lei non rimase che rassegnarsi. Avrei voluto che non dicesse nulla, bastava stringerle, pensava. Forse è stato meglio così, altrimenti mi sarei illusa che avesse capito il mio imbarazzo.

Lui sentì le mani di lei che si rilassavano e pensò subito a quanto lei avesse bisogno della sua stretta romantica per stare meglio. Era appagato ed orgoglioso, al punto che pensò addirittura di continuare lui stesso a scaldarle le gambe, improvvisando gesti impacciati e sconvenienti sulle sue cosce.

Sì spaventò quando lui le posò le mani sulle gambe. Oddio, cosa sta facendo, si chiese. Fortunatamente il gesto fu breve e rapido; lui si accorse che non era né il posto né il momento giusto per toccarla in quel modo. Arrossì ma lei non lo vide. Cosa prendi, chiese lui.

Ti ho vista al bar, lo scorso venerdì. Quale bar. Quello del corso. E tu dov’eri, perché non mi hai salutata. Si era fermato ad osservarla. L’aveva vista con qualcun altro, prima di entrare nel locale. Ero sul lato opposto della strada, fermo al semaforo. Invece no, ero al bancone del bar, confessò tra sé, volevo guardarti. L’aveva osservata mentre le consegnavano il toast e un succo. Ecco il tuo panino, le avevano detto, appoggiando il piatto sul bordo del tavolo e non davanti a lei. La cameriera si scusò solo dopo qualche secondo, quando si accorse della gaffe. Lui pensò a quanto fosse stata imperdonabilmente sbadata ma notò anche una piccola dose di crudeltà. Figurati, non c’è problema, rispose lei sorridendo. Mi sono immaginato di fronte a te, seduto a quel tavolo, continuava a pensare lui. Mi domandavo come fossi arrivata fino a lì. Mi chiedevo dove abitassi. Pensavo ai movimenti delle tue mani mentre ti pettinavi. Eri impeccabile in quei jeans, camicetta bianca e giacca bordeaux in pelle. Capelli curati appoggiati alle spalle, li spostavi di tanto in tanto per mordere il toast. Ho bevuto un interminabile cappuccino, fantasticando su noi due.

Eri fermo al semaforo, gli chiese. Ah, ho capito, mi hai vista parlare con quel tipo seduto sul muretto, quello con le stampelle e non ti sei avvicinato. Ti ho vista ma non ho potuto fermarmi, scusami. E poi lui è entrato nel bar e mentre pensavo a noi, si è seduto d’innanzi a te e avete parlato, pensava. Ti guardavo dritta negli occhi dallo specchio sul muro di fronte a te. Ti guardavo e non provavo vergogna nel fissarti così a lungo. Mi guardavi e non eri intimidita. Ti muovevi con cautela, masticavi lentamente. Lui ti parlava guardando fuori, parlava delle sue gambe e tu gli sorridevi senza sapere nulla del suo sguardo. Ed io non sapevo nulla del tuo.

Allora, mi vuoi dire altro o te ne starai zitto per tutta la serata, chiese lei. Lascia che ti legga il menu, rispose lui. Non ci posso credere, sta facendo il geloso, pensava lei. La cosa mi lusinga. E le scappò un sorriso, che lui notò. Non farti illusioni. Scelsero cosa ordinare. Ti ho guardata terminare il toast. Hai bevuto e ti sei passata il tovagliolo sulle labbra. Ho continuato a fissarti nel riflesso dello specchio. Hai chiesto il conto, hai pagato al tavolo, ti sei alzata, hai preso il tuo bastone bianco e sei uscita. Ed ora che sei qui davanti a me non so che dirti, continuò a pensare.

Questo silenzio mi sta infastidendo. Non so se mi sta guardando o se è ancora chino sul menu. Non posso starmene zitta, pensò.

Rosario irruppe nel loro silenzio. Rosario non è il suo nome, lo hanno soprannominato così perché di sera vende le rose nei ristoranti. Per abitudine si finisce sempre col dire di no a Rosario ma è un’abitudine che a volte costa cara, molto più di un paio di rose. Fu lei a dover rimediare, dicendo che avrebbe preferito il rosso di un quartino e facendo seguire la battuta da una risata coraggiosa. Che cretino, perché ho detto di no, si chiedeva lui. Potremmo accompagnare il quartino con una rosa, se me lo permetti, azzardò lui.

Si chiedeva se il fatto che lei non lo vedesse lo avrebbe messo più a disagio di quanto avesse pensato. Ci teneva a farla sentire bene in sua presenza, ma non sapeva proprio come fare, dal momento che se lei non poteva vedere i suoi gesti, non li avrebbe neanche potuti interpretare secondo quelle che erano le intenzioni con le quali lui li compiva. Si sentiva un po’ come un mimo davanti a un pubblico di ciechi. Oddio, ma cosa sto farneticando, si rimproverava. Lei, intanto, ad ogni forchettata che portava alla bocca, pensava alla lentezza obbligata del suo gesto e a come l’avrebbe fatta apparire agli occhi di lui. Passava spesso il tovagliolo sulle labbra e tutt’intorno ad esse. Non hai nulla, tranquilla, avrebbe voluto dirle. Comprese che l’unico gesto che l’avrebbe messa a suo agio sarebbe stato proprio passarle il tovagliolo sulle labbra, fingendo di toglierle una punta di salsa o una briciola di pane. In cuor suo era convinto che tale gesto avrebbe suscitato in lei una piccola dose di arrendevolezza che gli avrebbe permesso di varcare un’importante soglia di intimità fisica. Entrambi avrebbero instaurato un rapporto di reciproca fiducia. Con tale intento, in un movimento tremate per la forte emozione, le chiese il permesso di passarle il tovagliolo sul lato destro della bocca. Lei, imbarazzata, sollevò rapidamente il braccio e con un colpo di gomito rovesciò il quartino di vino, seguito dal fragore dei calici che si infrangevano a terra.

 

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